I trapianti sui pazienti sieropositivi: da tabù a pratica consolidata
Sono passati più di diciotto anni da quando ho eseguito in Italia il primo trapianto di rene su un paziente sieropositivo, nello specifico come direttore dell’Istituto mediterraneo dei trapianti di Palermo.
Al tempo eseguire trapianti sui pazienti affetti dal virus del HIV veniva erroneamente ritenuta una terapia sperimentale, ma avendo io già accumulato una notevole esperienza negli Stati Uniti mi feci carico di questa responsabilità certo dei suoi presupposti scientifici che ne attestavano la sicurezza per il paziente.
Fu un gesto che mi costò una lettera di censura dall’allora Ministro della Salute Girolamo Sirchia, perché ritenne che era “stata un'azione non corretta da parte di chi ha effettuato questo tipo di trapianto perché non ha chiesto e ottenuto le autorizzazioni che la legge impone e che sono necessarie perché la società sappia che non ci sono avventurismi o iniziative personali in questo campo, ma che le cose avvengono in maniera controllata”, per riprendere le parole dello stesso Ministro[1]. La lettera di censura mi fu consegnata da Alessandro Nanni Costa, al tempo direttore del Centro nazionale trapianti, che stigmatizzò modalità e opportunità di eseguire trapianti in soggetti Hiv positivi[2].“In Italia, come in tutto il mondo, ogni iniziativa sperimentale deve essere assoggettata alle autorizzazioni di legge, nessuno ha il diritto di prendere iniziative senza di queste, anche se sono iniziative corrette”, aveva poi aggiunto lo stesso Sirchia in occasione del Congresso della Società italiana dei trapianti d'organo (SITO) tenutosi a Genova il 28 e 29 settembre del 2001[3].
A questa considerazione avevo già risposto in quei giorni, affermando come “non [esistesse] alcun tipo di controindicazione clinica. Il paziente [era] stato inserito in un protocollo già collaudato negli Stati Uniti, a Pittsburgh e a San Francisco”. Non riuscivo a capire, quindi, “perché avremmo dovuto negare questa possibilità di cura. Per me era un malato che aveva bisogno di aiuto, come gli altri”. Avevo anche sottolineato come fosse evidente che la valutazione clinica dovesse essere rigorosa e accurata[4].
Gli individui affetti dal virus dell’Hiv, infatti, risultano maggiormente esposti al pericolo di malattia renale cronica, sia per la natura dell’infezione, sia per altre patologie spesso correlate quali l’epatite B e C, sia, infine, a causa dell’impatto sugli organi delle diverse terapie antiretrovirali[5].
L’operazione fu un successo: si trattava del trapianto di un rene donato da un padre verso un figlio, che ovviamente oltre alla terapia antirigetto continuò il trattamento antiretrovirale contro l’Hiv. Questo dopo 5 anni di dialisi a causa di un‘insufficienza renale, a seguito dei quali il ragazzo si rivolse quasi per caso a me, dopo essere stato rifiutato da tutti i centri trapianto Italiani ai quali si era rivolto. “Non credo sia eticamente ammissibile escludere un paziente perché sieropositivo” erano state le mie parole dopo l’intervento, parole che sottoscrivo ancora oggi.
Tra i pareri favorevoli dell’epoca mi piace ricordare le parole del componente del Comitato nazionale per la bioetica e ordinario all’Università di Messina Demetrio Neri che, esultante, sottolineava l’importanza etica di un intervento che non discriminava un paziente sieropositivo. “E quando si parla di vita è questa l’ottica giusta. L’etica non ha risposte standard per tutti. Sarebbe solo ingegneria morale e non credo che l’aspettativa di vita possa essere un criterio di scelta equo” dichiarò lo stesso Neri in merito alla questione[6].
Soltanto ora, a distanza di anni, queste parole hanno assunto una nuova linfa a seguito di recenti studi che ne hanno confermato l’attendibilità. Si trattò del “segno di un effettivo passo in avanti dell’Italia in questo settore”, come affermai allora, e l’evoluzione scientifica conferma oggi come io fossi dalla parte della ragione e della scienza[7]. Oggi, oltre alla soddisfazione principale, quella di parlare ogni anno con quel ragazzo, ora uomo, a cui il trapianto di rene ha cambiato la vita, a volte ripenso all’amarezza delle durissime critiche ricevute dal Governo Italiano nella figura del Ministro della Salute. Ma invece di provare sentimenti negativi sorrido di gusto pensando al fatto che ogni anno il Ministro della Salute assegna una medaglia d’oro ai medici Italiani più meritevoli con una pomposa cerimonia: quanto è più importante per me la cartolina di auguri che ricevo a Natale dal paziente!
Di recente, inoltre, i ricercatori del National Institute of Allergy and Infectious Diseases (NIAID) hanno confermato come i tassi di sopravvivenza ai trapianti di reni si mantengono in una percentuale alta anche quando ricevente e donatore sono entrambi sieropositivi. Parliamo, quindi, di una preziosa risorsa anche per le persone che, affette da Hiv, sopravvivono con la malattia renale allo stadio terminale.
I risultati provengono da uno studio effettuato su 51 pazienti sieropositivi trapiantati e che hanno ricevuto un rene da donatori HIV+ deceduti in Sud Africa. Osservando i risultati, si è registrato dopo cinque anni un 83,3% di sopravvivenza con un 78,7% di buona funzionalità renale. Elmi Muller, a capo dello studio, ha dichiarato che attraverso l’impiego delle più avanzate tecniche di laboratorio disponibili si sia dimostrato come la superinfezione da Hiv (che può svilupparsi quando entrambi i soggetti, donatore e ricevente, presentano due ceppi diversi del virus) abbia diminuito il rischio di manifestarsi all’interno di questi pazienti. “Dati i risultati clinici positivi a lungo termine che abbiamo ottenuto nel nostro studio, riteniamo che i nostri dati sostengano fortemente l’uso esteso di questi trapianti salvavita” ha poi concluso.
Come riporta lo stesso studio, pubblicato sul New England Journal of Medicine, è soltanto a partire dal 2013 (12 anni dopo rispetto al trapianto che eseguii in Italia) che negli Stati Uniti le persone affette da Hiv hanno potuto accedere con regolarità a un trapianto di organo, e questo grazie alla legge HIV Organ Policy Equity (HOPE). Ciò che cambia grazie a questo studio, ora, è la percezione della popolazione circa il fatto che “gli organi di donatori con Hiv potrebbero costituire una nuova speranza per le persone che vivono sia con l'Hiv che con la malattia renale allo stadio terminale”, come dichiarato dal Direttore del NIAID Anthony S. Fauci. “Se questi risultati saranno confermati negli studi clinici avremo la possibilità di migliorare la salute di molte persone che vivono con l'HIV e aumentare la possibilità di trapianti”[8].