Il Servizio Sanitario paga il dualismo pubblico-privato
È ormai da molti anni che il Servizio Sanitario Nazionale ha previsto, per gli ospedali sia pubblici che privati, una riorganizzazione sotto forma di aziende sanitarie per le quali il bilancio rappresenta il principale perno attorno al quale far ruotare i fondi pubblici che attualmente ammontano al 7,3% del Pil nazionale[1].
Il privato ha cominciato a ritagliarsi una parte sempre più rilevante dell’assistenza sanitaria ai cittadini, fino al punto in cui, oggi, viene finanziato per quasi l’80% con fondi pubblici. Tutto ciò avviene perché molte aziende sanitarie private sono accreditate per ricevere il rimborso delle prestazioni mediche erogate attraverso i fondi delle Regioni. Ma, come spiega il Professor Giuseppe Remuzzi, “al contrario del pubblico, il soggetto privato in sanità ha come finalità principale il fatturato, il rendimento e il profitto aziendale”, e quindi si pone in netto contrasto con il concetto stesso di sanità pubblica che, invece, “eroga un Servizio Sanitario, indirizzato e coordinato dalla Regione, mediante programmi e controlli” volti ad somministrare prestazioni “nell’interesse esclusivo dei pazienti ancor prima che al mantenimento e allo sviluppo dell’azienda”.
Risulta quindi ovvio il fatto che al privato dovrebbe spettare una funzione integrativa e non alternativa rispetto al settore pubblico, visto che proprio per la sua natura non “può essere vincolato ad assicurare l’esercizio di un pubblico servizio di carattere essenziale con la necessaria continuità, universalità e obbligatorietà”[2].
È scontato dire che la responsabilità di tutto questo si deve allo Stato, che dovrebbe garantire un serio controllo circa l’appropriatezza di strutture e processi al fine di evitare gestioni che in alcuni casi, per fortuna isolati, si sono tradotti addirittura in prestazioni inutili o dannose per i pazienti. Questo per non ripetere casi come la Clinica Santa Rita o i casi Maugeri e San Raffaele, per quanto riguarda i privati accreditati, così come, ad esempio, la cronaca riguardante Stamina che ha investito il settore pubblico a Brescia.
Da una parte, quindi, non posso che trovarmi d’accordo con il Dott. Domenico De Felice quando, davanti alla trasmissione Presa Diretta che denunciava una struttura privata accreditata che impiegava soltanto il 2% degli 8 milioni incassati dai fondi pubblici per assistere pazienti in pessime condizioni igieniche, proponeva fin dal 2003 un rigido sistema statale di controlli. Non solo per gli aspetti finanziari ma soprattutto per i pazienti: questi ultimi, infatti, otterrebbero molto probabilmente un Servizio Sanitario in grado di assicurare cure e tempi migliori.
Bisogna comunque sottolineare che, per i cittadini, la cosa più importante risulta il poter scegliere a quale tipo di struttura affidarsi, sia essa pubblica o privata. Secondo la ricerca del Censis in collaborazione con Aiop per l’85% delle persone questa è la prima preoccupazione, con motivazioni che vanno dalla fiducia nei confronti del personale medico (50%) alla difesa della libertà di scelta come valore fondamentale della sanità (35%). Risulta molto bassa, in questo caso, la percentuale di chi vorrebbe soltanto una gestione pubblica del Servizio Sanitario (9%) che si traduce, per il solo 6%, in prestazioni sempre e comunque migliori.
Ma è un dato di fatto che nel periodo tra il 2008 al 2016 si è assistito ad un taglio sempre più netto degli investimenti pubblici in sanità, portando in questo lasso di tempo il tasso di ospedalizzazione da un valore di 192,8 ai 140,9 per 1.000 abitanti, con una riduzione del 25,6% dei ricoveri e, nello specifico periodo 2011-2015 al 10% di giornate di degenza in meno. Le misure dei vari Governi hanno portato, in questo modo a una riduzione dei posti letto sino a 2,7 ogni 1.000 abitanti, media lontana da quella degli altri Paesi europei che, invece, si assesta sui 4 posti letto per 1.000 abitanti. Confrontando i dati del pubblico con quelli dei privati, è evidente come per i secondi si prospetti una situazione migliore: le strutture private assorbono infatti il 13,6% della spesa pubblica ospedaliera e arrivano ad erogare il 28,3% delle prestazioni[3].
Come spesso accade, però, mi trovo d’accordo con le perplessità espresse dal Prof. Remuzzi nel suo sopracitato La salute (non) è in vendita quando afferma che “l’80% dei pazienti che accedono ad una struttura privata lo fa grazie al Servizio Sanitario Nazionale”, avendo garantito quindi “una fonte di introito [che] non ha nulla a che vedere con l’imprenditorialità privata che si potrebbe invece esprimere benissimo in altri modi”.
E pensare che è la stessa politica ad essere la prima causa di questo connubio, laddove secondo le recenti stime del Censis soltanto il 3% dei consiglieri regionali italiani risulta favorevole alla messa a bando per legge della sanità privata accreditata al Servizio Sanitario Nazionale. La maggioranza (il 63% del campione intervistato), invece, si dichiara d’accordo con il ruolo del privato accreditato, mentre il restante 34% preferirebbe dirottare le risorse verso la sanità pubblica. Nel complesso, ad essere favorevole alla attuale devolution sanitaria sono il 62% dei consiglieri regionali italiani.
Ovviamente anche in questo caso c’è una forte differenza geografica, che vede al Nord Italia salire il giudizio favorevole ad una percentuale dell’80% mentre si scende al 47% nel Centro e addirittura al solo 28% al Sud, dove sembra prevalere una più salda fiducia nell’apparato pubblico statale. Proseguendo sul report del Censis, poi, si evince che i consiglieri regionali del Centro-Nord propendono maggiormente per un sistema di premi e penalità per le strutture virtuose o, al contrario, inadempienti, mentre il 44% di essi prevedrebbe “un fondo di perequazione a beneficio delle Regioni in difficoltà” (percentuale che, al Sud, sale addirittura al 76%, molto probabilmente a causa di una maggiore percezione del problema delle differenze geografiche). Il 32% pensa comunque che la devolution abbia strutturato un sistema più vicino ai bisogni della cittadinanza, mentre un terzo degli stessi ritiene che tra i meriti di questo dualismo ci sia anche l’aver fatto emergere le disparità regionali.
Cosa ci mostrano questi dati? Che esiste una sostanziale differenza tra quello che la politica ritiene essere soddisfacente per i cittadini e quello, invece, che realmente si percepisce a livello territoriale.
Per concludere utilizzo alcune parole di Nerina Dirindin nel suo E’ tutta salute, in difesa della sanità pubblica, quando afferma che andrebbe rispolverata la teoria del velo d’ignoranza di John Rawls che affermava: “se gli individui non conoscessero la posizione in cui si trovano (o potrebbero venirsi a trovare) si esprimerebbero a favore di una società ispirata al principio del più debole, ovvero che adotta ogni azione in grado di migliorare la posizione di colui che sta peggio (o di coloro che vivono in condizioni svantaggiate)”. Per tornare a considerare il Servizio Sanitario Nazionale come un elemento di eguaglianza, un diritto che alcuni danno per scontato oggi ma che potrebbe non essere assicurato nell’Italia di domani.
[1] https://www.ilfattoquotidiano.it/2017/03/25/dualismo-tra-sanita-pubblica-e-privata-accreditata-solo-il-controllo-delle-prestazioni-ci-salvera/3463973/
[2] G. Remuzzi, La salute (non) è in vendita, Gius. Laterza & Figli, 2018, Bari
[3] http://www.agipress.it/evidenza-homepage/sanita-pubblica-e-privata-l-85-degli-italiani-vuole-scegliere-liberamente.html