La fuga delle risorse è il sintomo di un Paese senza attrattività
Secondo il Rapporto junior stilato dalla Fondazione Migrantes nel 2018 sono partiti 128mila connazionali di cui addirittura 24mila di minori (il 19,7% del totale, del quale il 16,6% con meno di 14 anni e ben l’11,5% con meno di 10), dimostrando come la mobilità e la ricerca di una condizione di vita più soddisfacente siano rientrate prepotentemente tra le opzioni a disposizione delle nuove generazioni. Sono infatti 48mila i ragazzi tra i 18 e i 34 anni appartenenti a questo campione, a dimostrazione di come un’ampia fetta del futuro di questo Paese non ritiene di avere a disposizione un futuro roseo propendendo, quindi, per la ricerca di fortuna in altri luoghi. A conferma di tutto ciò, lo stesso Rapporto ci evidenzia come nei 12 anni analizzati, tra il 2006 e il 2018, la percentuale di italiani con residenza all’estero abbia subito un incremento addirittura del 64,7%.
Nonostante tutto questo dimostri una graduale apertura culturale nei confronti dei temi dell’integrazione e dell’accettazione dell’altro, come affermato dal coordinatore dell’Osservatorio Nazionale Intercultura del Ministero dell’Istruzione Vinicio Ongini quando si riferisce all’emigrazione giovanile come ad una “avventura sempre sorprendente che è la scuola da un lato e l’incontro con il diverso dall’altro” [1], però, a far preoccupare è il dato che vede soltanto 42 ricercatori scegliere il nostro Paese come luogo di studio e di investimento, a fronte di suoi 400 colleghi che, dall’Italia, fanno invece il percorso inverso.
Come riporta un interessante articolo de Il Sole 24 ore, infatti, dei 9mila scienziati finanziati dal 2007 al 2018 con un totale di 17 miliardi di euro ci sono ben 852 italiani, ma tra questi ad essersene andati dal nostro territorio sono già più della metà. I giornalisti Bartoloni e Bruno spiegano che “la ricerca è solo la punta dell’iceberg. Parlarne può riassumere la perdita di appeal del brand Italia e la fuga di cervelli che ci attanaglia”, in considerazione del fatto che ci riferiamo solamente a 42 persone che hanno scelto di intraprendere un percorso di ricerca nel nostro Paese (ultimi in questa particolare graduatoria) a fronte delle 933 emigrate ad esempio in Gran Bretagna, dei 453 ricercatori che hanno scelto la Svizzera, dei 397 in Germania o dei 317 in Francia[2].
Lo Stivale secondo questo recente studio dell’Ocse si rivelerebbe quindi come uno dei Paesi con meno attrattività in termini di profili talentuosi quali gli universitari o gli imprenditori, vero e proprio traino per una futura rinascita economica.
La loro indagine parte dall’analisi dei lavoratori altamente qualificati, degli studenti lodevoli e dei ricercatori più promettenti, e si basa su sette criteri assunti a variabili in grado di far adattare un individuo al nuovo contesto: “la qualità delle opportunità che questo ha da offrire, i livelli di reddito e tassazione, la prospettiva futura dello Stato nel contesto globale, il costo della vita (e la conseguente possibilità di trasferire anche il resto della famiglia), lo sviluppo del sistema di ricerca e di quello infrastrutturale, l'attitudine verso l'immigrazione e il diverso e la generale qualità della vita”. Fattori che la stessa Ocse si riserva di valutare più o meno incisivi a seconda che si riferiscano ad una categoria analizzata o all’altra.
Prendendo in considerazione, ad esempio, la qualifica lavorativa, notiamo che una delle caratteristiche che paradossalmente danneggiano in Italia le giovani figure professionali è l’aver studiato e ottenuto un master o un dottorato di ricerca (peggio di noi soltanto la Grecia, il Messico e la Turchia). Chi possiede un’alta qualifica, infatti, tende a spostarsi in un punto dove si è già scatenato un effetto moltiplicatore e dove, quindi, può trovare terreno fertile per avviare la sua idea di business. Purtroppo, nel nostro caso, la regola vale al contrario[3].
Partendo dal presupposto che la formazione di un giovane laureato costa all’Italia circa centosettantamila euro, fermare questo esodo che prima grava sulle nostre casse e poi porta un benefit economico all’estero diventa, di conseguenza, una priorità nazionale.
Come ammonisce il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco “le uscite hanno coinvolto i giovani e i laureati in modo ancora più significativo rispetto agli anni precedenti la Grande Recessione: tra i primi la percentuale è passata dallo 0,1 nel 2007 a circa lo 0,5 nel 2017, tra i secondi dallo 0,2 allo 0,4. Tra i rischi per il paese di origine vi è anche quello che i flussi in uscita riducano la creazione di impresa, poiché il tasso di imprenditorialità raggiunge il proprio picco intorno ai 45 anni ed è maggiore nelle regioni più dinamiche”[4].
Un altro dato che conferma questa tendenza è quello riguardante il grado di istruzione di chi emigra, ai massimi storici per quanto concerne il nostro Paese: 34,6% con una licenza media, 34,8% in possesso di un diploma e il 30% di una laurea. Un dato che porta direttamente al nocciolo della questione, riguardante l’incisività sul Pil del loro contributo economico, e che ci dice che nel solo 2016 questo trend ci è costato 7 miliardi di euro, circa mezzo punto per quanto riguarda il prodotto interno lordo.
Uno dei dati più pessimistici, però, è quello riguardante l’aumento annuale del conteggio degli espatri: se nell’ultimo anno si è saliti di un 3,3%, infatti, la forbice si allarga a +19,2% nel triennio e addirittura al +36,2% degli ultimi cinque anni. Questo dato, legandosi all’estrazione sociodemografica dei campioni analizzati che ci mostrano come l’emigrazione non sia una questione di reddito ma un fenomeno riguardante “tutte le regioni del Paese, incluse quelle più ricche del Centro Nord”, rende l’intera questione particolarmente emergenziale e preoccupante.
Per invertire questa rotta c’è bisogno di un serio programma di investimenti e benefici fiscali come quelli, ipotizzati nelle misure per il Controesodo, che negli ultimi dieci anni hanno permesso il ritorno di quasi 8.500 laureati, stando ai dati del Ministero dell’Economia.