Il valore della vita e la responsabilità del medico
"Rimanemmo colpiti anche dalla personalità di Ignazio Marino, che aveva fatto una grande carriera a livello internazionale eppure conservava una semplicità quasi mistica. Lo ricordo con indosso dei sandali da frate. L'incedere calmo, rassicurante. Aveva adottato da poco una bambina colombiana e dava l'impressione di essere mosso da una grande fede. Non ho mai capito la sua entrata in politica. Anzi, l'ho sempre biasimato per averlo lo fatto: non si può mettere da parte un dono del Signore così grande."
Questo episodio è raccontato dalla Signora Franca Fendi nel suo libro 'Sei con me' (Rizzoli - 2018). Conobbi la Signora Fendi oltre 20 anni fa, negli Stati Uniti, dove venne dopo avermi contattato per assistere il marito ammalato e, con grande generosità e senza esitazioni, aveva deciso di donargli un suo rene. Non ricordo di aver mai indossato sandali da frate, soprattutto in ospedale... ma ricordo una donna coraggiosa che con un gesto d’amore ha salvato la vita dell’uomo che amava.
Questa è solo una delle tante storie di trapianti e donazione di organi che ho vissuto nella mia vita da chirurgo. Tanti altri episodi sono rimasti nei miei ricordi, momenti di grande difficoltà e intensità, che mi hanno fatto interrogare sul valore della vita e sui nostri limiti davanti alla morte e mi hanno aiutato nel mio percorso di uomo e di chirurgo.
Ho sempre creduto che un medico ha una grande responsabilità umana ed è anche per questo aspetto che ho scelto questa professione. Ricordo bene la prima volta che mi resi conto sulla mia pelle che essere un medico è molto più che curare, è essere presente, è ascoltare, è partecipare al dolore fisico e psicologico della persona ammalata.
Erano gli anni 70 e io ero un giovane chirurgo alle prime armi al Policlinico Gemelli di Roma. Il signor Nicola, un contadino pugliese afflitto da un gravissimo tumore del pancreas, mi chiamava insistentemente, gridando, ma io facevo finta di non sentire perché ero in ritardo e dovevo finire i prelievi di sangue di tutti i malati. Il signor Nicola, con gli occhi ancora vivacissimi, non si dava per vinto e mi disse una frase che mi arrivò come un pugno nello stomaco e mi tolse il respiro: «Che cosa avrà da fare, dottore, di così importante da non avere nemmeno un minuto di tempo per tenere compagnia a un uomo che sta morendo?».
Per la prima volta da quando avevo iniziato a prendere nelle mie mani la vita degli ammalati, mi resi conto che la morte non era un letto che si liberava per il paziente successivo ma l’intero universo di una persona che crollava.
Diversi anni dopo, quando la mia carriera era avviata, iniziai a fare i conti con la responsabilità di operare tra la vita e la morte, come in equilibrio su un filo sottile, e in certi momenti sentire che un’esitazione, un ritardo, una debolezza possono costare la vita a chi è letteralmente nelle nostre mani.
L’accertamento della morte cerebrale, necessaria per poter prelevare un organo ed eseguire un trapianto, rispetto a quarant’anni fa, oggi è più sicuro perché disponiamo di strumenti molto più sofisticati e precisi. Ricordo bene un’esperienza difficile che accadde nel 1987 e che mi fece comprendere quanta prudenza fosse necessaria al fine di fugare ogni possibile dubbio.
Quella notte volai da Pittsburgh, dove lavoravo al centro trapianti dell’università, a Portland in Oregon per un prelievo di fegato da un bimbo deceduto in seguito a un trauma cranico. Ne avevamo bisogno urgente per trapiantare una bambina gravissima a cui non rimanevano molti giorni di vita. Arrivati all’ospedale di Portland, esitai nell’iniziare l’intervento chirurgico per il prelievo degli organi perché non avevo la certezza assoluta che il paziente dichiarato in morte cerebrale fosse davvero morto. Mi sentivo davvero sotto pressione, ma chiesi comunque di eseguire un esame ulteriore e complesso, l’angiografia cerebrale: avrebbe richiesto due o tre ore in più, ma avrei avuto quella certezza che per me era indispensabile per procedere. Assistei all’angiografia e non vi furono più dubbi sull’effettiva morte del paziente. La piccola paziente trapiantata al mio ritorno da Portland oggi è una giovane donna in piena salute.
Anche considerando la responsabilità verso chi è in attesa di un organo che gli può salvare la vita, è fondamentale sentirsi vincolati ai principi etici che devono sempre guidarci e, se necessario, eseguire un test in più per essere sicuri. Prendere delle scorciatoie non è mai una buona idea.