Il mestiere del medico: 5 consigli per i giovani medici sul rapporto medico-paziente
Quando ero piccolo volevo fare l’ingegnere navale, come mio padre. Con il tempo capii che ero più portato per le materie umanistiche e mi avvicinai alla medicina. Credevo che quello del medico fosse un mestiere che richiedeva dedizione e umanità, oltre a conoscenza e tecnica impeccabili.
Nel ‘73 mi sono iscritto a medicina all’Università Cattolica di Roma. Ero già determinato a fare il chirurgo e a occuparmi di trapianti. Iniziai a frequentare il reparto di chirurgia al secondo anno e questa mia passione si consolidò.
All’inizio avevo un grande timore ad appoggiare una lama sulla cute integra e vederne uscire il sangue. Ricordo che ero terrorizzato di sbagliare anche di solo un millimetro. Capivo, insomma, che la precisione e il senso di responsabilità erano due caratteristiche fondamentali del mestiere.
Per essere un chirurgo non solo è necessario essere accurati tecnicamente e conoscere il corpo umano alla perfezione, ma bisogna avere quell’ “in più” di forte umanità ed empatia nei confronti della persona che si rivolge a noi perché sta male o, addirittura, che rischia la vita e spera di essere curata.
Oggi vi sono alcuni chirurghi che ritengono che il loro mestiere sia una disciplina di altissima tecnologia ma che con la guarigione chirurgica si concluda il rapporto con il paziente. Io guardo al rispetto che di solito le persone hanno per il medico e penso che nasca anche dall’idea che egli possa guardare dentro di loro, nel loro intimo, e scoprire qualcosa che non va. Questa relazione profonda e personale dovrebbe spingere a creare un rapporto umano basato sul reciproco rispetto e sul senso di responsabilità.
Nel mestiere di medico, si impara molto dall’esperienza e dall’osservazione dei propri mentori durante il periodo di formazione, del loro lavoro clinico ma anche dall’approccio e disponibilità che hanno verso i pazienti. Io ho avuto la fortuna di avere maestri eccezionali, non solo i professori dai quali ho imparato tutto quello che so, ma anche altre figure che ho incontrato nei contesti ospedalieri, in Italia e all’estero, in cui ho lavorato.
Da quando sono professore cerco di trasmettere ai miei studenti qualcosa in più oltre alle nozioni e alla tecnica. Per questo mi piace condividere alcune riflessioni con gli studenti di Medicina e con i medici più giovani per aiutarli a stabilire un rapporto di qualità con pazienti e familiari.
Ascoltare
Io credo che tra medico e paziente, in questa epoca, l’ascolto stia gradualmente venendo meno, e non perché manchi il tempo o perché si guardino più i dati strumentali che non il viso e l’espressione dei pazienti. L’ascolto manca quando il chirurgo preferisce essere meno coinvolto.
Gli esseri umani capiscono, ad di là del tempo limitato e delle tecnologie che si frappongono, se il medico che hanno di fronte ha la volontà vera di stabilire un rapporto personale, se ha interesse per quello che dicono, se è concentrato e attento nell’ascoltare.
Da parte di noi medici, è essenziale essere attenti ai dettagli, per esempio, nella chirurgia, badare che dopo un intervento, anche tecnicamente perfetto, il paziente si sottoponga alle terapie necessarie per guarire completamente. Infatti, con un buon rapporto umano si incide anche sulla compliance, cioè sull’adesione alle cure del paziente.
Comunicare
Le regole di comunicazione nella medicina sono poche ma vanno seguite con rigore: parlare un linguaggio che sia il più possibile comprensibile per tutti, anche per chi non conosce l’anatomia e la fisiologia, e non dimenticare mai che chi si ha di fronte è un essere umano che sta chiedendo aiuto.
A volte può succedere di commettere degli errori. Il segreto per non entrare in conflitto sta proprio nel tipo di rapporto che si stabilisce con il paziente e con la sua famiglia. Se il paziente e la famiglia del paziente ti hanno visto sempre, se sei stato sempre attento, e soprattutto se hai sempre detto la verità, la loro comprensione per un eventuale errore è sicuramente maggiore.
Essere presenti
È importante far capire al paziente e ai suoi familiari che ci siamo e che faremo tutto il possibile per farlo stare meglio. A volte ciò che conta di più per una persona sono l’empatia e l’affettività del medico che hanno di fronte.
Il rapporto che si instaura tra il medico e il paziente è per me la massima realizzazione della medicina. Interagire e saper comunicare con le persone che chiedono il nostro aiuto non è semplice e per farlo nel modo giusto è necessario avere un forte interesse verso l’altro. Non è possibile fare il medico se non si ha interesse verso gli altri esseri umani e se non si è affettivamente presenti con i pazienti.
Tenersi in contatto
Nella cultura anglosassone il chirurgo che ha operato un paziente è responsabile di lui ovunque si trovi. Thomas Starzl, grande chirurgo dei trapianti, con cui lavorai per 15 anni negli Stati Uniti, diceva sempre: “Una volta che hai operato un paziente e gli hai messo un fegato nuovo, he is your baby for life”, è il tuo bambino per sempre.
Ricevere un organo che permette di vivere è come ricevere una nuova vita, e il legame con il medico che realizza questo intervento rimane per sempre. Io sono in contatto con quasi tutte le persone che ho operato, mi mandano email e messaggi, mi fanno sapere se stanno bene, condividono con me gli avvenimenti importanti della loro vita.
Un forte legame si crea non solo nel caso del trapianto. Ogni paziente, in un certo senso, diventa parte della tua vita di medico, perché ne hai conosciuto la vulnerabilità, forse l’hai visto piangere, l’hai visitato molte volte, ne hai ricevuto le confidenze più intime.
Rispondere a tutti i messaggi
Uno dei miei primi lavori dopo la specializzazione fu a Cambridge. Mi trasferii lì per imparare la chirurgia dei trapianti, in particolare quelli di fegato, dal Professor Sir Roy Calne, che nel 1982 era l’unico chirurgo che eseguiva il trapianto del fegato in Europa.
Sir Roy è un medico sui generis, ha l’abitudine di fumare la pipa (fuori dall’Ospedale!) e operava ascoltando musica classica. Inoltre, con mio grande stupore, abituato com’ero all’Italia dove ai professori talvolta non si poteva rivolgere la parola, era solito rispondere a tutti i messaggi che riceveva. Ogni volta che lasciavo una comunicazione (non esistevano ancora gli smartphone), presto arrivava la sua risposta: in poche righe battute a macchina e firmate a mano con l’inchiostro nero della stilografica mi comunicava tutto quello di cui avevo bisogno.
Persone come Roy Calne ricevono ogni giorno decine di lettere, biglietti e domande. Oggi capita anche a me. Rispondere a tutti è un segno di educazione e civiltà. Chi ottiene la risposta, che sia un paziente, un collaboratore o uno studente, riceve una motivazione straordinaria, uno stimolo psicologico nel proprio impegno professionale.