Trapianti d’organo: buone notizie e prospettive future
Il trapianto di organi è una delle più grandi innovazioni terapeutiche introdotte nella medicina moderna nel secolo scorso.
La sua storia è affascinante: dagli esperimenti avvenuti in antichità, passando per le prime operazioni eseguite grazie alle invenzioni e le scoperte nell’ambito della chirurgia in epoca ottocentesca. Tuttavia solo nella seconda metà del ‘900 si riuscirono a realizzare trapianti con esiti clinici positivi.
Nel 1954 il chirurgo Joseph Murray (premio Nobel nel 1990) eseguì un trapianto di rene tra due gemelli monocoriali presso l'ospedale Peter Bent Brigham di Boston. La procedura fu un successo chirurgico e, ovviamente, immunologico: il paziente visse per 8 anni con un rene perfettamente funzionante e senza nessuna reazione di rigetto grazie al fatto che donatore e ricevente condividevano lo stesso identico patrimonio genetico e quindi l’organo del donatore non venne riconosciuto come “estraneo” dal sistema immunitario del ricevente.
Negli anni '60 l’Americano Thomas E. Starzl e l’Inglese Roy Y. Calne, grazie al perfezionamento delle tecniche chirurgiche e a importanti scoperte sull'immunosoppressione, contribuirono a consolidare la pratica del trapianto di fegato come terapia di routine. Questo portò alla creazione di diversi centri di eccellenza in Nord America, in Europa, e anche in Sud America e Australia, inizialmente tutti diretti dagli allievi di questi due straordinari scienziati.
I progressi nella pratica del trapianto d’organi aprirono una fase di grandi e nuove possibilità per la medicina. Divennero inoltre sempre più urgenti alcune questioni antropologiche ed etiche, ancora oggi argomento di discussione globale.
Il primo trapianto di cuore, avvenuto il 3 dicembre 1967 ad opera del chirurgo Sudafricano Christiaan Barnard, diede inizio pochi mesi dopo allo storico confronto filosofico sulla fine della vita.
Cinquanta anni fa, nell’agosto del 1968, un’apposita commissione istituita dall’Harvard Medical School elaborò un documento, divenuto poi noto come la «dichiarazione di Harvard», secondo cui la perdita irreversibile di tutte le funzioni dell’intero cervello è equiparabile alla morte della persona. Veniva introdotto per la prima volta il concetto di morte cerebrale.
Nella storia dell’uomo per milioni di anni, prima del 1968, il concetto di morte aveva coinciso con la cessazione del respiro e del battito cardiaco. Questa connotazione era diventata inappropriata perché le nuove efficienti tecnologie di supporto vitale per la terapia intensiva erano tali da rendere possibile che continuassero a respirare i polmoni e a battere il cuore di una persona in morte cerebrale.
Era evidente che il concetto di morte dovesse essere rivisto alla luce di questa nuova condizione. Infatti, non sarebbe stato ammissibile distaccare da un respiratore artificiale e dai farmaci una persona già in morte cerebrale se non fosse stato possibile dichiarla morta nonostante i suoi organi e tessuti continuassero ad essere ossigenati dal battito cardiaco e dalla ventilazione artificiale dei polmoni.
Con il successo del primo trapianto di cuore era nata la possibilità di “riportare in vita” un individuo la cui l’attività cardiaca è irreversibilmente compromessa, grazie al trapianto di un organo cardiaco ancora vitale, disponibile in seguito alla morte cerebrale di un altro individuo.
Non c’è dubbio che la possibilità di salvare la vita di milioni di persone di grazie al trapianto di organi vitali contribuì a introdurre la nuova definizione di morte cerebrale.
Il discorso circa le problematiche etiche in tema di trapianti di organi è ancora oggi molto sentito. In Italia dopo la legge sui trapianti del 1999 è stato raggiunto un altro importante traguardo con la legge sul testamento biologico.
Alla data del 30 luglio 2018 sono state registrate nel Sistema Informativo Trapianti del Ministero della Salute, 3.500.000 dichiarazioni di volontà complessive in merito alla donazione di organi e tessuti post-mortem a scopo di trapianto terapeutico. Di queste, 3.036.802 (85%) sono costituite da consensi, mentre 545.523 (15%) sono le opposizioni registrate presso le ASL e i Comuni abilitati. (Fonte AIDO)
È ancora motivo di dibattito scientifico, invece, la possibilità di creare catene internazionali di coppie di donatori di rene e riceventi non compatibili, per poter sopperire in maniera del tutto legale e regolamentata a quello che oggi è il più grande impedimento alla pratica del trapianto: la carenza di organi.
L’idea di una catena internazionale è stata introdotta da un algoritmo creato da Alvin Roth, premio Nobel per l’economia nel 2012. L’algoritmo di Roth dimostra che se io volessi donare un rene a un mio familiare per evitare che debba ricorrere alla emodialisi e non posso perchè sono di gruppo sanguigno B e il mio familiare di gruppo sanguigno A, in qualche parte del mondo esiste un’altra coppia con i gruppi sanguigni opposti. Per entrambe le coppie il trapianto è impossibile perché non vi è compatibilità immunologica all’interno della coppia. Si potrebbero invece realizzare due trapianti semplicemente “incrociando” donatori e riceventi delle due coppie. Con questa modalità sono già stati eseguiti diversi trapianti con pazienti negli Stati Uniti, Messico e Filippine.
Il 19 luglio Italia e Spagna hanno realizzato, per la prima volta nel Sud Europa, un trapianto internazionale di rene in modalità incrociata in cui sono state coinvolte due coppie donatore-ricevente non compatibili. Questa catena, chiamata “crossover”, ha permesso di salvare due pazienti: uno a Pisa e l’altro a Barcellona. (Fonte AIDO)
L’obiettivo della collaborazione tra diversi Paesi è allargare ulteriormente il bacino di potenziali donatori a favore di quei pazienti che non possono ricevere un rene a causa della presenza di anticorpi specifici che determinano l’incompatibilità con la persona che per affetto vorrebbe donare l’organo.
Queste sono notizie positive, ma c’è ancora tanta strada da fare. La crescita nella pratica del trapianto, importante per salvare la vita di milioni di persone in tutto il mondo, sarà determinata dall’aumento della consapevolezza circa l'importanza della dichiarazione di volontà in merito alla donazione di organi e tessuti e dalla creazione di catene internazionali.
Il progresso nelle procedure di trapianto di organi ha permesso alla medicina di sviluppare tecniche e trattamenti avanzati che la chirurgia e la farmacologia da sole non avrebbero potuto raggiungere; oggi la ricerca sulle cellule staminali, che presenta diverse somiglianze tecniche con la pratica del trapianto, ha un potenziale simile.
Da un punto di vista antropologico e filosofico, quella che fu e che continua ad essere l’esperienza del trapianto d’organo può essere un modello per affrontare le difficili sfide etiche poste dalle nuove scoperte mediche e scientifiche.
Come negli anni '60 il trapianto di organi ha contribuito a una nuova definizione di morte, l'attuale ricerca sulle cellule staminali embrionali potrebbe promuovere un dibattito globale sulla definizione dell'inizio della vita.