La ricerca scientifica e l’Italia
Sono sempre particolarmente attento allo stato della ricerca scientifica in Italia e nel mondo, non solo per il mio lavoro da chirurgo, ma perché credo che il benessere economico e la salvaguardia dei diritti civili passi per il progresso e per la conoscenza estesa a tutti.
Nella mia attività di chirurgo negli Stati Uniti, ma anche durante il mio mandato da Senatore in Italia, ho sempre cercato di supportare le giovani intelligenze, frenare l’esodo dei nostri cervelli migliori verso l’estero, puntare sulle capacità e non sulle raccomandazioni.
La mia carriera di medico e ricercatore si è svolta prevalentemente negli Stati Uniti, ma durante le mie esperienze di studio e di lavoro in Italia ho avuto modo di osservare da vicino le scelte fatte dai parlamenti e dai governi negli ultimi decenni e valutare il danno creato nei confronti della ricerca scientifica.
Oggi per la Thomas Jefferson University mi occupo anche di progetti di scambio internazionale tra Atenei. Sono quindi spesso a contatto con giovani studenti e ricercatori, con i quali non manca occasione per un confronto. Molti di loro sono Italiani e questo mi rende ancora più partecipe delle loro preoccupazioni e delle difficoltà che oggi attraversa la ricerca in Italia.
Credo che oltre al danno umano, lo stato precario che soffoca la ricerca determini non pochi problemi che investono tutta la popolazione: il nostro Paese è fermo, stretto tra proposte di sviluppo solo a breve termine, non in grado di delineare un disegno generale e una visione diversa che punti a un vero cambiamento.
La ricerca sta affrontando un calo dei tassi di finanziamento in molti Paesi, fatto che influenza la crescita culturale ed economica di alcune delle principali democrazie mondiali.
Gli Stati Uniti, invece, promuovono un approccio a lungo termine che investe nella ricerca di base e nella tecnologia avanzata, considerandole forze trainanti della società. Fa parte della storia di questo Paese. Non è un caso che il 3 marzo 1863, nel mezzo della sofferenza per la Guerra civile Americana, il presidente Abraham Lincoln decise di firmare un atto del Congresso degli Stati Uniti per fondare la National Academy of Sciences. Anche in un momento così drammatico la classe dirigente degli Stati Uniti riteneva il progresso scientifico come centrale nello sviluppo della società. L’Italia ha spesso adottato una strategia assai più timida.
Calo dei finanziamenti, scelte politiche poco lungimiranti, paternalismo culturale e ostacoli procedurali pregiudicano la capacità dei ricercatori italiani di realizzare il loro potenziale. Ciononostante, in termini di pubblicazioni e risultati, gli italiani possono vantare una qualità e una produttività eccezionali, risultati che sfortunatamente si verificano soprattutto al di fuori dal proprio Paese. I migliori, spesso, sono infatti i cosiddetti “cervelli in fuga”.
Ogni anno 30.000 ricercatori italiani si trasferiscono all’estero, mentre solo in 3.000 si stabiliscono in Italia da altri Paesi. Considerando un costo medio di 3.000 euro per semestre, e i cinque anni di corso universitario necessari per la laurea, l'Italia finisce per perdere almeno 175 milioni di euro all'anno per gli studenti che lascia andare via.
Dopo essere stati istruiti e formati a spese dell'Italia, questi ingegneri, economisti, astrofisici, biologi e medici qualificati contribuiscono alle attività di ricerca e sviluppo e alla crescita economica di altre nazioni. Tutto questo contribuisce al prestigio internazionale che i nostri ricercatori ottengono all’estero ma è molto triste.
L'Italia investe poco nella ricerca, questo deve sicuramente cambiare, ma il passaggio cruciale non è semplicemente quello di aumentare i finanziamenti. Le procedure devono acquisire maggiore trasparenza e i ricercatori essere messi nelle condizioni di sviluppare un carattere più competitivo e uno spirito imprenditoriale.
Il modo in cui il parlamento e il governo dovrebbe procedere è quello di riformare i criteri di assegnazione per i finanziamenti e di iniziare ad applicare trasversalmente le regole di selezione e valutazione della peer review.
Gli ultimi governi purtroppo non hanno fatto abbastanza per cambiare lo stato delle procedure di avanzamento di carriera accademica, né per promuovere un adeguato riconoscimento dei giovani più meritevoli.
Fa parte della nostra storia una famosa legge del 1980 che ha determinato l’assunzione di circa 15.000 nuovi professori associati, una maxisanatoria per dare un posto fisso ai vecchi assistenti universitari. Per accedere a quel concorso, bastava presentare un curriculum con titoli e pubblicazioni, e fu così che ci fu una vera e propria corsa alla pubblicazione, spesso non corrispondente a un reale impegno nella ricerca.
In quella stessa legge si stabiliva, tra le altre cose, anche l’inamovibilità dei professori ordinari che, una volta arrivati in cattedra, non avevano più nulla da dimostrare e, se volevano, potevano rilassarsi e godersi il loro tranquillo posto fisso, inamovibile per legge.
Durante il mio mandato da Senatore in Italia mi sono impegnato per introdurre misure che potessero incrementare la trasparenza e la meritocrazia nella selezione dei progetti di ricerca da finanziare e nello stanziare risorse dedicate ai giovani ricercatori, esclusivamente sulla base del merito.
Con questo spirito, nel 2006-7, ho promosso due articoli di legge per destinare sino al 10% dei fondi pubblici per la ricerca biomedica a progetti proposti da giovani scienziati al di sotto dei quarant’anni.
La novità più importante consisteva però nel sistema di valutazione: una commissione costituita da dieci membri, tutti scienziati al di sotto dei quarant’anni, per la metà appartenenti a centri di ricerca stranieri.
Per la ricerca questo è stato un punto di svolta cruciale verso la meritocrazia. Finalmente, le regole internazionali della peer review stavano entrando nel sistema italiano, liberando i ricercatori dalla servitù virtuale sotto la quale erano stati tenuti da vecchi accademici.
È servita una grande determinazione e costanza nel seguire da vicino ogni fase di realizzazione di questo esperimento ma, alla fine, i ventisei ricercatori più meritevoli si sono aggiudicati ciascuno un finanziamento di circa 550.000 euro e hanno potuto avviare le loro ricerche in piena autonomia.
Purtroppo, il parlamento e il governo successivi hanno abolito quegli articoli di legge.
Tornando ad oggi, proprio come nel 2006, non credo che la soluzione per dare dignità ai ricercatori precari sia assumerli tutti con contratti stabili, bensì iniziare ad applicare le regole della peer review seriamente. E sono sicuro che tanti di loro sarebbero d’accordo con me.
Allo stesso modo, un cambiamento di percezione, cultura e approccio probabilmente darebbe molti più benefici di una semplice (benché necessaria) infusione di nuove risorse economiche.
Solo valutando sulle basi del merito potremmo dare maggiore dignità ai nostri scienziati e promuovere la crescita intellettuale, economica e culturale dell’Italia.